La Visione
La Visione della Grande Unificazione
di Guido Copes
Stavo preparando l’esame di Storia della Scienza, quando mi assopii ed ebbi una visione: vidi l’800, gli uomini con la barba e i cappelli a cilindro, la boria dell’uomo bianco, le illusioni del positivismo, le innovazioni tecniche, i filosofi e gli scienziati. Sopra a tutti, vidi James Clerk Maxwell. Emergeva come sorretto da un alone di luce, il volto piegato verso destra e il basso, lo sguardo sereno. Dalla sua barba prese a svilupparsi una luce sempre più intensa, che esplose in un bianco abbacinante. In quello spazio tridimensionale, vidi comporsi piccoli segni neri, la scrittura delle formule imparate al liceo. Quando le quattro equazioni comparvero ai vertici di un quadrato immaginario, iniziarono a collassare in un vortice. Quello, come un buco nero, prima attirò la vicina equazione di Lorentz, poi, crescendo in velocità e dimensioni, altre formule e tutte le immagini che avevo visto del secolo del meccanicismo. Alla fine comparve una scritta lampeggiante: TEORIA DELL’ELETTROMAGNETISMO CLASSICO, e all’altro angolo di un nuovo quadrato, si compose la scritta: QUANTI DI LUCE. Sotto apparvero TEORIA DELLA RELATIVITÀ e CAMPI UNIFICATI. Questa volta, però, non si originò un vortice, ma semplicemente la visione scomparve, e io mi ridestai. O meglio, tornai a uno stato di coscienza più vigile, pur restando nel dormiveglia. Ricordai che, grazie a Lorentz, si era potuto capire che la radiazione elettromagnetica scoperta da Maxwell trasmette alla materia energia e quantità di moto. Ovvero, nelle onde elettromagnetiche c’è energia, ma anche qualcosa tipicamente associato ai corpi materiali. Da allora, non fu più possibile tenere distinti i concetti di “materia” ed “energia”, sulla cui contrapposizione si erano fondati il senso comune, la ricerca scientifica e alcune filosofie. La formula era questa:
U (energia)
quantità di moto = -
c (velocità della radiazione nel vuoto)
che scritta diversamente diviene:
Energia = q x c
Poi vidi Einstein. Era molto giovane, sdraiato sul letto, stava pensando alla morte. La luce filtrava obliqua dalle tendine, e lui la osservava assorto. Improvvisamente i suoi occhi ebbero uno sfarfallio, si alzò, prese carta e penna e cominciò a scrivere. Era l’inizio del ‘900, il secolo della psicanalisi e dei conflitti mondiali. Pochi giorni dopo, Einstein pubblicò un articolo in cui affermava che, in determinate circostanze, la radiazione elettromagnetica ha natura corpuscolare, e ogni particella che costituisce il raggio luminoso, chiamata fotone, ha un’energia pari alla frequenza della radiazione per la costante di Planck:
E = h (costante di Planck) x u (frequenza)
Dunque, la radiazione elettromagnetica sarebbe formata dai “quanti”, piccolissime particelle che “trasportano” l’energia della radiazione stessa. L’espressione dell’eguaglianza tra energia e materia la fornì lo stesso Einstein due anni dopo. Cercando di definire la variazione della massa di un corpo in funzione della sua velocità, nell’ambito della teoria della relatività, Einstein giunse a ipotizzare che l’energia dovesse essere pari alla massa del corpo per il quadrato della velocità della luce:
E = m x c²
Questa formula di fatto sancisce l’eguaglianza ontologica tra energia e materia:
E = M
Tuttavia, non è possibile eliminare impunemente c², che è un numero altissimo (299.792.458 m/s)², relativisticamente molto significativo, e introduce un elemento di difficoltà nel passaggio da un termine all’altro, da un livello all’altro del reale. Questo numero, che potremmo chiamare Ke (costante di Einstein), è in realtà un concetto limite, perché nella teoria della relatività non si può superare la velocità della luce (c), e d’altronde, nella pratica identifica una velocità non riproducibile. Comunque, queste sono solo formule, rappresentazioni imperfette del reale, e Einstein lo sapeva bene. Per questo motivo, prima con la teoria della relatività generale, poi con quella dei campi unificati, cercò per tutta la vita di raggiungere una sistemazione più stabile, semplice e verosimile delle sue teorie. Non ci riuscì. Eppure, questo tentativo di unificazione, insieme a molte frasi profonde che gli vengono attribuite, come “La vera libertà è la conoscenza razionale dei vincoli”, lo denotano come una persona spirituale…
Fu allora che vidi la formula:
E = M = S
L’energia è uguale alla materia che è uguale allo spirito, in un’equazione non dimostrabile, ma che è nota e chiara ad ogni mistico, di ogni epoca e di ogni cultura. Questi sono i tre livelli in cui è possibile cogliere la realtà, ciascuno con leggi proprie eppure simili, tre piani della medesima entità che interagiscono in continuazione e sono una cosa sola, pur manifestandosi in modi diversi, o meglio diversamente percepibili e registrabili. Lo spirito, la coscienza, la mente agisce sulla materia grazie all’energia, e modificazioni intrinseche, non volute, della materia, possono influire sullo spirito. Questa è, semplicemente, la realtà, per chi la sa cogliere e cambiare. Tuttavia, generalmente, queste persone sono diventate tali percorrendo vie diverse dalla scienza, e non esprimendosi nel linguaggio scientifico, non vengono ascoltate dagli scienziati.
In realtà, l’eguaglianza E = M = S potrebbe essere l’assioma fondamentale di una nuova scienza, la Meccanica relazionare delle variabili complesse, o più semplicemente Scienza della vita o dell’ascolto.
Lo stress per la preparazione di un esame gioca brutti scherzi. Mentre mi ribellavo alla complessità del ragionamento implicito e alla piega deterministica che stava prendendo la visione, in un ulteriore avanzamento verso la coscienza e il risveglio, li vidi.
Non avrei chiamato questa visione Grande Unificazione se si fosse limitata a unificare i tre livelli della realtà. In realtà, l’aspetto più significativo fu la riunione del grande col piccolo, dell’universale col particolare.
Come nell’universo all’entropia si oppone l’amore1, alla morte la vita, al male il bene, così io vidi, alla base della realtà, un principio di opposizione binario2, in rotazione, in moto e velocità variabili nello spazio e nel tempo. Qualcosa di simile al diagramma del "T’ai Chi", ai cui lati spesso ci sono due frecce, che ne indicano il movimento. Chiunque veda la figura, però, pensa a un moto di rotazione bidimensionale, intorno al centro del cerchio raffigurato. Nella realtà non è così. Bisogna immaginare un principio binario tridimensionale, costantemente in moto in un sistema di riferimento spazio-temporale (anche se restasse apparentemente fermo nello spazio, compirebbe comunque un movimento nel tempo).
Il moto dei principi è dovuto all’intrinseca opposizione binaria, ed ha una direzione tendenzialmente circolare (come il moto dei pianeti che combina rotazione e rivoluzione), ma viene costantemente modificato dagli urti con gli altri principi. Si tratta comunque di forze estremamente deboli. Per esprimere le complesse interazioni tra i principi è utile la metafora dell’autoscontro. Questi principi binari, però, hanno una caratteristica fondamentale: sono il ponte, la porta tra il mondo fisico, della materia e dell’energia, e quello spirituale.
Tutto ciò che è nell’universo è soggetto a forze di creazione e distruzione, ma in ogni momento, tutto ciò che è nell’universo è cosciente di essere ciò che è (un uomo sa di essere un uomo, un pezzo di legno sa di essere un pezzo di legno), e questa coscienza si oppone al cambiamento. Tuttavia, esiste una profonda differenza tra gli esseri viventi e le cose “inanimate”, ed è, appunto, l’anima, o meglio la “mente” o “autocoscienza”, che identifica un diverso livello di coscienza. Lo spirito, infatti, è uno, ma ogni essere ne “contiene” una quantità diversa, che determina le qualità con cui si manifesta.
Le cose inanimate sono completamente soggette alle forze di creazione e distruzione. Un sasso è un sasso perché i principi binari che lo costituiscono sanno di far parte di un sasso, e questa coscienza collettiva, che potremmo definire pura, è la forza che ordina i principi binari, riducendone gli urti casuali e orientandoli nel senso della simmetria e dell’equilibrio, che è ciò che rende il sasso duro. Per spezzare il sasso, o per tagliare un legno, dobbiamo infatti produrre una forza superiore a quella che tiene uniti gli atomi, che è in definitiva la coscienza dei principi binari.
Un essere vivente3, invece, ha in modi diversi coscienza di sé: non solamente quindi la coscienza collettiva dei principi binari, ma un’autocoscienza, la coscienza di esistere. Essa, a partire dalla dicotomia fondamentale tra “io” e “il mondo”, dividendo e contrapponendo crea una propria rappresentazione dell’universo. Nell’uomo, la coscienza si estende fino a comprendere sé stessa, ma ciò porta spesso ad acutizzare la separazione tra “io” (pensante) e “universo”, tutto il resto (pensato). Tuttavia, aumentando ulteriormente le sue capacità, la coscienza umana riconosce l’unità di tutte le cose, lasciando cadere le divisioni e avendo un’intuizione della coscienza assoluta, la coscienza del tutto4.
Comunque, poiché l’autocoscienza degli esseri viventi è il riflesso particolare dell’autocoscienza assoluta, essa intuisce, accetta e riproduce le contrapposizioni che regolano l’universo, e in particolare i momenti di creazione e distruzione. Nella prima parte della vita, infatti, prevale la creazione, che si compie secondo modalità specifiche orientate prevalentemente dalla coscienza pura, per cui il corpo cresce secondo principi di equilibrio, ordine e simmetria; nella seconda prevale la distruzione, che comporta la degenerazione verso un crescente disordine.
Un essere vivente nasce per volontà di un altro, o altri due esseri viventi. Questa volontà, espressa pienamente o meno, è spirito, materia ed energia che il genitore cede al figlio. L’unione di due volontà diverse, in particolare, genera una forza molto potente, che si esprime anche a livello materiale, e permette la crescita biologica del nuovo organismo. All’inizio della vita, la nuova coscienza ha il massimo dell’energia vitale, eredità intatta del/i genitori, e la utilizza per far crescere il corpo. Quando però il corpo raggiunge la sua forma ottimale, la coscienza è appagata e allenta il suo controllo sul corpo, anche perché subentra la consapevolezza dell’inevitabilità della morte e di dover morire. Inoltre, bisogna considerare che in natura tutti gli organismi sono interdipendenti, e spesso, per diversi motivi riconducibili al principio di creazione/distruzione, gli individui sono spinti ad anticipare la propria fine, o a “lasciarsi andare”, come avviene soprattutto nelle società animali evolute, ad esempio per coloro che non dovendo mantenersi impigriscono, o per ragioni di disagio psicologico. La mente rilascia così il controllo sulla materia, e prende il sopravvento la forza cosmica della distruzione, che si esprime con la malattia e infine con la morte del corpo. Tuttavia, in certi casi, potrebbe essere addirittura la mente stessa a desiderare (più o meno inconsciamente), e quindi creare, la malattia, o ad attaccarsi ad essa per evitare la guarigione.
Comunque, l’autocoscienza se vuole può ancora guarire il corpo, come si vede molto bene nelle piante e negli animali, in cui permane fino all’ultimo un fortissimo istinto di conservazione, residuo dell’originaria forza vitale. Nell’uomo, invece, più frequentemente prevalgono lo sconforto, il fatalismo e il vittimismo, che rafforzano la malattia. La causa principale di questo atteggiamento è forse da ricercare nel fatto che la mente tende ad auto appagarsi dimenticando il corpo. Ciò è particolarmente vero nell’odierna società consumistica del mondo avanzato, in cui i beni materiali offerti si sostituiscono alla capacità creatrice della mente, e vengono usati spesso come droga, per distogliere la coscienza dai problemi e dal dolore.
Anche nella malattia, anche nel decadimento fisico, la mente può agire a livello subatomico sulla materia, per apportare miglioramenti5. A questo punto, però, è necessario riprendere la questione del c². Non c’è una costante simile per il passaggio dallo spirito alla energia/materia, perché non esiste la formula relativa, ma la Ke implicitamente suggerisce la difficoltà della trasformazione, esprimibile in spirito, energia o materia. Di conseguenza, un uomo sano con uno spirito forte, volendo potrebbe modificare la materia senza troppi problemi, ma per un malato questo è molto più difficile. Avendo poca forza, generalmente la sua mente può solo “dirigere” la costruzione delle cellule, che vengono sostituite in continuazione. Per guarire, quindi, spesso ha bisogno di aumentare la propria energia, attraverso il cibo e il riposo, o pratiche specifiche come il “chi kung”, ma è utile anche riceverla dall’esterno, a cominciare dalle cure e dall’amore dei suoi cari, o attingendola dall’universo, ad esempio attraverso la fede in Dio e la meditazione. Tuttavia, in ogni caso sarebbe meglio che avesse l’aiuto di qualcuno, possibilmente un esperto qualificato, perché la via verso la guarigione è comunque un percorso lungo e rischioso, in cui è facile perdersi e sbagliare6.
Quando la mente, la coscienza, agisce sulla materia, il moto dei principi binari cambia direzione, passando da tendenzialmente circolare a tendenzialmente rettilineo, cioè elicoidale (come i capelli ricci - io li immagino biondi - di una bella donna).
Il cerchio e la linea retta simboleggiano anche i principali approcci filosofico/religiosi al problema della vita e della morte. Alcuni privilegiano il cerchio, l’adesione al Tao, proponendo una vita in armonia con la natura per riprodurre dentro di sé l’ordine, basato sulla contrapposizione degli opposti, che governa il mondo. Le grandi religioni del libro, invece, sono anche le religioni della linea retta. Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo, infatti, valorizzano la vita e l’impegno dell’uomo nel mondo, ma propongono innanzitutto un percorso di elevazione spirituale verso Dio. Così, nel Cristianesimo, la linea retta verticale che parte da terra, dall’uomo, verso Dio, si può incontrare, per merito della grazia divina (che ha compiuto il percorso inverso con Gesù), con la linea retta orizzontale che è Dio. L’ascesi del buddismo, invece, è essenzialmente negativa, poiché persegue il distacco dalle passioni, ma ciò è a sua volta un desiderio, una volontà che ostacola la ricerca stessa, così che difficilmente, ammesso che sia possibile, il buddista potrebbe liberarsi completamente da qualcosa che (sebbene sia espressione della sua natura) gli viene descritto come sconveniente7.
Poi mi svegliai. Ero rimasto assopito una decina di minuti, ma per trascrivere tutte le cose che ho visto, e renderle comprensibili, mi è occorsa una mattina. L’esame è andato bene, ho preso ventotto. All’uscita dall’università, però, ripensai alla visione. Trovandola verosimile, mi rattristai, consapevole di non poterne fare una teoria scientifica, quantomeno per il fatto di non avere una formazione adeguata. Inoltre, anche se fossi riuscito a scriverla in qualche modo, nessuno mi avrebbe dato retta. La scienza si basa sul metodo sperimentale, e anche le teorie più strampalate possono essere accettate, purché dimostrate sulla base di dati inconfutabili: quali prove avrei portato io? Tuttavia, non volendo perdere la visione nell’oblio della memoria, decisi di scriverla comunque, così come mi era apparsa.
Ad ogni modo, anche se l’equazione E = M = S mi appariva lontana dal diventare il postulato di una nuova scienza, dovetti riconoscere che molti tentativi erano già stati fatti nella direzione di un allargamento della ricerca al campo spirituale: dagli studi sul “chi” agli esperimenti di Aspect sulle connessioni non locali delle particelle subatomiche, alla teoria di Bohm dell’universo olografico.
Tuttavia, restava il fatto che il metodo migliore per indagare lo spirito, quello che aveva dato più risultati, era la meditazione, ovvero l’antitesi della scienza, poiché reificando e distinguendo i loro oggetti di ricerca, rispettivamente i concetti di spirito e di materia/energia, queste due discipline hanno creato tra di loro una grande distanza. Mi resi conto che difficilmente scienza e mistica si sarebbero mai ricongiunte, e in effetti la Grande Unificazione, come mi era apparsa nella visione, si collocava prima, o oltre ad esse. In seguito ho scoperto che uno scienziato aveva provato ad assimilare i due metodi di ricerca, proponendo una sorta di Tao della fisica, in cui però manteneva i due termini ben distinti, volendo salvare capra e cavoli, e soprattutto le rispettive occupazioni e tradizioni.
Parafrasando Platone, ogni ricerca dello spirito umano nasce dalla meraviglia; ma poi, sul cammino della conoscenza, si apre un bivio: da una parte una miriade di sentieri, pari al numero delle possibili specializzazioni, con destinazione il tutto; dall’altra un’unica via, rivolta verso l’interiorità, con destinazione l’uno. Si tratta di due metodi d’indagine, due modi di concepire e vivere la vita, due percorsi divergenti destinati a non incontrarsi mai, sebbene conducano a risultati molto simili.
Comunque, io sono giunto alla conclusione che oltre che impossibile, unificare la mistica e la scienza sia inutile, perché tra uno e infinito c’è solo l’uomo con le sue illusioni, e il desiderio di “scoprire” Dio. Forse, l’unico modo per conoscere la verità, conoscere Dio, è incontrarlo, quasi per caso, nel silenzio dello zero.
1 Oltre alle quattro interazioni fondamentali (forti, deboli, elettromagnetiche e gravitazionali), la scienza dovrebbe considerare adeguatamente queste due forze o tendenze generali, che finora sono state trascurate perché difficilmente misurabili, ma che a livello generale e “spirituale” determinano gli eterni momenti di creazione e distruzione. su
2 Questo è un racconto basato su una “visione”, ma a prescindere dalla sua verosimiglianza, credo che gli scienziati, più che concentrarsi sulla ricerca dei principi, dei “mattoni fondamentali” della materia, dovrebbero studiare il moto e le interazioni, particolarmente significativi proprio nel mondo subatomico. Comunque, sebbene la descrizione dei “principi” sia molto vaga, è significativo notare la somiglianza con l’atomo più semplice, formato da un protone e un elettrone, o col nucleo atomico più semplice (un protone e un neutrone). Forse ho visto addirittura qualcosa di più piccolo, ma va ricordato che l’universo come lo conosciamo si basa su un principio binario, a cominciare dalla disposizione degli elettroni negli orbitali e dalla struttura delle molecole elementari. su
3 Il concetto di “vita”, come tutti gli altri, è molto labile e impreciso, e pertanto valido solo indicativamente. In generale, bisogna diffidare dalla affermazioni generali, perché sono generalmente false. I nomi e i concetti che usiamo, infatti, sono limitati e limitanti: se li applichiamo alla realtà (quando possibile) ci accorgiamo che ad essi possono corrispondere grandi varietà di dati ed esperienze, e quindi diverse sfumature di significato. su
4 Se il tutto è “spirito” o “coscienza assoluta”, risulta immediato il legame con altri concetti già in uso come “Mente universale” o “Dio”. L’uomo da sempre crea immagini di Dio, che spesso sono semplicemente proiezioni inconsapevoli della propria “divinità”, nell’incapacità di coglierla insieme alla divinità del tutto. Di seguito introduco una possibile definizione di “Dio”:
Dio è libertà. Tuttavia, Dio è talmente libero da rinunciare alla sua libertà assoluta, facendosi materia/energia e sottoponendosi a quelle che a noi sembrano leggi meccanicistiche. Ovviamente, però, Dio è libero anche di ignorare queste leggi (umane), e può esprimersi con le caratteristiche di un uomo limitato, che ama e si commuove per la fede delle persone, e compiere i miracoli. In effetti, Dio è già in tutti gli uomini e in tutte le cose, visibili e invisibili.
Oppure:
Dio è coscienza assoluta. Tuttavia, Dio è talmente cosciente da riuscire a concepire sé stesso. Questo atto è il principio binario alla base della realtà. Come nell’uomo l’autocoscienza, la consapevolezza di esistere, data dalla distinzione tra io pensante e io pensato, a partire dalla dicotomia tra "io" e "il mondo" ("esisto" significa "sto fuori", mi distinguo rispetto a qualcos'altro), continuando a dividere e contrapporre genera una rappresentazione dell'universo, così l’autocoscienza assoluta crea l’universo, riproducendo all’infinito l’originale momento di opposizione tra Dio pensante e Dio pensato.
Noi abbiamo una grande possibilità, perché possiamo rispondere al Verbo della Genesi, che si manifesta nella fondamentale domanda: “Io chi sono?”. Infatti, siamo le creature più simili a Dio (essendo materia, energia e spirito in sostanziale equilibrio), e nel silenzio della mente separatrice possiamo riconoscerci parte del Tutto. L’esperienza che possiamo avere di Dio è molto limitata, esprimibile con parole come “Tutto”, “Nulla”, “l’Uno”, “Mente Universale”, “Amore”, “Energia”…, ma sufficiente per intuire l’infinitezza di Dio. Ecco perché tutte le risposte hanno un valore e devono essere rispettate, come le forme di adorazione delle tradizioni religiose e le varie pratiche di culto: ciascuna di esse arricchisce la risposta complessiva dell’umanità.
Un'importante precisazione, considerando l'imperante relativismo etico: quanto detto sopra non significa che tutte le religioni o le forme di culto siano uguali, o che la limitata esperienza diretta di Dio sia preferibile alla fede religiosa. Sicuramente, l’esperienza diretta può essere utile per verificare e comprendere meglio le rivelazioni delle religioni. su
5 Quotidianamente tutti agiamo con lo spirito e l’energia sulla materia per modificarla, ma spesso con tecniche empiriche e in modo inconsapevole, come quando desideriamo far cessare un dolore, e magari contemporaneamente ci massaggiamo o tocchiamo in determinati punti, o nella “visualizzazione positiva”, usata soprattutto dagli sportivi. Tuttavia, esistono anche approcci religiosi, come i rituali per ottenere i miracoli, o pratiche esoteriche come il “reiki”. La disciplina più completa ed efficace che insegna a sviluppare l’energia per migliorare la vita è il “chi kung”, ma come tutte le tecniche, il chi kung è utile a livello terapeutico solo se basato sulla conoscenza (anche anatomica, medica, ecc.) e impostato come una preghiera, nella consapevolezza dell’unità del tutto (nel cosmo e nel corpo umano). su
6 Qualunque sia l’approccio alla malattia: materiale (medicine e chirurgia), energetico (chi kung…), spirituale (meditazione), l’utilità della cura può essere gravemente compromessa se non vi è il giusto atteggiamento della mente, che deve predisporsi alla guarigione senza ostacolarla in alcun modo. In questo senso, guarire è una conversione. Nel passato, il principale ostacolo alla guarigione era il senso di colpa: per questo Gesù diceva “Ti sono rimessi i tuoi peccati”, affinché i malati accettassero la grazia di Dio. Nel caso dei “miracoli” che iniziano nella mente dell’uomo, credo che il principale ostacolo sia proprio il desiderio di guarire, che quando è troppo forte causa squilibri e frustrazione, con l’unico risultato di peggiorare la malattia. Questo atteggiamento è dovuto alla superficialità e alla fretta, ma pensando spesso alle proprie miserie, e tormentandosi nel desiderio di guarire, oltre ad aggravare la malattia ci si richiude su di essa, generando un attaccamento morboso. Per questo è essenziale imparare la non azione, che consiste nel fidarsi e lasciar fare allo Spirito, rispettandone i ritmi e le modalità (assecondando il principio universale dell’armonizzazione degli opposti, come fanno inconsapevolmente i medici omeopatici). Voler guarire resta alla base del processo, ma bisogna desiderarlo in modo distaccato. Inoltre, si deve smettere di pensare alla malattia, anche se è utile visualizzare ogni tanto e con dolcezza il processo di guarigione. L’ultimo passo è aprirsi alla bellezza e alla grazia dell’universo, nel silenzio della meditazione. In questo modo, lo spirito si rafforza e la mente si espande, comprende che tutto cambia, e non si oppone al cambiamento. Così si porta l’armonia del principio universale dentro di sé ed è possibile guarire, ma anche accettare serenamente la malattia nel caso sia incurabile, come l’invecchiamento e la morte. su
7 La questione del rapporto tra materia e spirito diventa centrale in relazione al problema della mortalità, e a questo punto è quindi necessario chiarirla. Lo spirito è uno ed eterno, ma è evidente che la sua forma sia diversa prima, durante e dopo la vita dell’uomo. Come abbiamo visto, la volontà-spirito dei genitori e parte della loro materia/energia generano il nuovo individuo, con possibili aggiunte o modificazioni per interferenze esterne. Come ogni animale, l’uomo ha un cervello, che gli permette di pensare: pensando al proprio corpo e ai propri pensieri, in relazione a ciò che gli sta intorno e alle altre persone, genera una raffigurazione mentale che chiamo “io”. L'io è ovviamente il pensiero più ricorrente, tanto da poter essere considerato una sorta di meta-pensiero.
Il pensiero è generato dalla materia (in ultima analisi dal cibo), ed è quindi condizionato dalle modificazioni del corpo e dai suoi istinti. Ne risulta che l’uomo si fa un’idea imprecisa di sé, che per giunta entra in contrasto con le sue successive modificazioni, causando inquietudine e frustrazione. Durante la vita, il pensiero del cervello (o “mente” o “autocoscienza riflettente”), con un intenso ragionamento o con la meditazione, può andare oltre l’io, giungendo a conoscere il “Sé”, che le religioni chiamano “anima”: l’essenza spirituale di ogni individuo. Generalmente, però, l’uomo prende coscienza della labilità e della transitorietà dell’io solo in circostanze drammatiche, in seguito a radicali e repentini cambiamenti psico-fisici (ad esempio per una delusione d’amore, un incidente o un’operazione), che portano alla “morte dell’io”. Spesso, però, questa “morte dell’io” avviene solo con la morte del corpo.
Ovviamente, poiché lo spirito è uno, il Sé, eredità dei genitori, determina l’io, e l’io, modificandosi nel corso della vita, condiziona il Sé. Quando l’uomo muore, il cervello cessa le sue funzioni e con esso muore definitivamente l’io. Tuttavia, sopravvive il Sé, l’anima, che porta in sé, come un ricordo (una traccia, un’ombra), la coscienza dell’io.
Se in vita l’uomo ha conosciuto il Sé, e con la meditazione è riuscito a riconoscerlo come un riflesso particolare di Dio, e ha cercato di accrescerlo a discapito dell’io, sottomettendo la materia allo spirito, al momento della morte potrebbe, magari con l’aiuto di Dio, liberarsi dai vincoli che lo legano al mondo delle paure e dei desideri, semplicemente accettando la morte dell’io, lasciando andare ciò che è stato, e andando incontro a Dio, raggiungere in Lui la libertà e la pace. Questo sarebbe il paradiso, ma è evidente che arrivarci è rarissimo.
Se invece l’uomo vive (come normalmente fa) nell’ignoranza del Sé, lasciando che si atrofizzi sotto il peso di materia dell’io, o conoscendo il Sé ma non riuscendo a liberarsi dai vincoli dell’io, la sua morte dovrebbe essere traumatica, per il senso di perdita dell’io, e probabilmente il Sé rimarrebbe legato al mondo delle passioni. La sensazione di incompletezza, il non riconoscersi uno in Dio, potrebbe indurlo a tentare di migliorare la propria condizione (cioè elevarsi a Dio), nell’unico modo per lui possibile: vivendo. La vita, quindi, sarebbe il purgatorio, il campo di prova in cui le anime hanno la possibilità di conoscere Dio e di elevarsi a Lui, condividendo la sua triplice natura. Il prezzo è la sofferenza, necessaria per liberarsi dai vincoli dell’io.
Di conseguenza, ogni vita sarebbe importante, una possibilità preziosissima, e anche la sofferenza risulterebbe significativa, tanto che in alcuni casi potrebbe essere considerata come una grazia di Dio, se permettesse agli uomini e soprattutto ai moribondi di liberarsi dall'attaccamento all’io per raggiungerlo dopo quella vita. In ogni caso, sarebbe solo per ignoranza o debolezza che l’uomo avrebbe bisogno di più vite (più “morti dell’io” in più vite) per riconoscere la sua vera natura, vivere di conseguenza (serenamente e in armonia con l’universo), e dopo la morte unirsi definitivamente con Dio. La “reincarnazione”, quindi, sarebbe solo un’eventualità non necessaria.
Esiste però anche un’altra possibilità, espressa dalla teologia cattolica tradizionale, secondo cui l’unicità, la brevità e le privazioni della vita sono compensate dalla misericordiosa provvidenza di Dio. Dopo la morte Dio potrebbe permettere all’anima di purificarsi in una condizione particolare, attraverso pene inflitte da spiriti maligni o da Dio stesso, per poi accedere al paradiso. Sebbene il concetto di “purgatorio” non sia mai stato univocamente chiarito, questa ipotesi risulta perfettamente razionale, e complementare a quella precedente, nella concezione già delineata di Dio come essere talmente libero da poter agire personalmente nell’esistenza degli uomini.
Finora ho considerato il cammino verso Dio, ma ne esiste un altro che si allontana da Dio. In un caso limite, se un uomo vive fino alla fine succube delle passioni, rinunciando deliberatamente a ogni possibilità di redenzione, ribellandosi a Dio, il dolore per la perdita dell’io e il senso di incompletezza del Sé dovrebbe essere fortissimo, e condizionato dalle passioni della vita passata e dalla sofferenza presente, probabilmente lo spirito si richiuderebbe sul proprio dolore, nei luoghi in cui aveva vissuto, o vagherebbe per il mondo o nelle vicinanze, invidiando e odiando gli uomini perché simili a Dio e in grado di elevarsi a Lui. Questo sarebbe l’inferno.
Naturalmente, all'interno di questo quadro generale, potrebbero esistere molte situazioni diverse. Ad esempio, anche senza reincarnarsi o purificarsi per grazia di Dio, l'anima potrebbe raggiungere automaticamente la libertà in Dio dopo un certo tempo, verosimilmente molto lungo, per il probabile indebolimento del "ricordo" dell'io. Oppure, lo spirito potrebbe scegliere deliberatamente, specialmente in risposta a una volontà maturata prima della morte del corpo, di agire nel mondo o di reincarnarsi, per rimediare a degli errori o a delle ingiustizie, assistere qualcuno, vendicarsi, ammonire, portare a termine un lavoro lasciato incompleto… Oppure, potrebbe eseguire alcuni di questi compiti per grazia e volontà di Dio.
In realtà, quale sia la "vita" del Sé fuori dal corpo, e quindi la sua evoluzione, non è dato saperlo, ma resta il fatto che la morte è solo un evento, un passaggio, mentre uno ed eterno esiste lo spirito, che deve solo prendere coscienza di sé.
Bisogna precisare che se è essenziale riuscire a liberarci da ciò che ci lega al mondo al momento della morte, questo non significa che dobbiamo rinunciare ai nostri sogni, alle nostre passioni, a tutto ciò che ci rende umani, ma semplicemente che dobbiamo evitare di finirne schiavi, prendendo coscienza e ricordandoci che siamo ben più del nostro lavoro, dei rapporti sociali, e persino oltre il nostro corpo; che con onestà verso noi stessi e rispetto per gli altri possiamo diventare e fare ciò che vogliamo, ma l’unica cosa veramente necessaria è riconoscere che in effetti siamo già la pienezza.
In conclusione, mi sembra giusto dire che io sono cristiano (seguace di Gesù, “figlio di Dio”), che è una questione di testa ma soprattutto di fede, di fiducia, e voglio terminare col verso di una canzone che ho imparato da bambino, ma capisco solo ora: “Questa è la vita: conoscere Te, e il figlio tuo, Cristo Gesù…”. su
11 dicembre 2005
Guido Copes
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