Sulle traduzioni, i tradimenti, la non azione e lo spirito di fanciullezza
Una ragazza in Santa Sofia, Istanbul. Immagine rubata da Facebook |
“Quanti anni servono a un bambino perché diventi uomo,
perché impari la quiete e l’abbandono...”
(Francesco Gabbani, Vengo a fidarmi di te)
Traduzione e tradimento hanno la stessa origine (il verbo latino tradère), non a caso. Ogni traduzione è anche un tradimento, così come ogni passaggio ad altri di contenuti ed esperienze di vita, ovvero ogni tradizione. Si tratta di una condizione intrinsecamente connessa all'esistenza e alla sua trasmissione. Tuttavia, in certi casi il prezzo di questi piccoli e quasi impercettibili tradimenti risulta davvero alto.
Si pensi ad esempio al passo di una lettera di San Paolo tradotto per secoli più o meno così: “patisco nella mia carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo” (Colossesi 1, 24). Da questa citazione, che sembra far pensare a una redenzione parziale operata dal Signore, che vada completata dalle sofferenze dei fedeli, sono nate intere teologie e tutto un filone di mistica della sofferenza, su cui sorvolo. Oggi la stessa frase è tradotta all'incirca in questo modo: “patisco per completare ciò che delle sofferenze di Cristo manca nella mia carne”. A prescindere da quale sia la versione più corretta, appare evidente che c'è una bella differenza!
A volte il tradimento sembra voluto, anche se apparentemente risponde alla volontà di essere più fedeli all'originale. Si pensi ad esempio, per restare nell'ambito cattolico, alla nuova richiesta di perdono che i fedeli sono chiamati ad esprimere all'inizio della messa. Si tratta di un elemento fondamentale della liturgia, in quanto per accostarsi correttamente al mistero della Misericordia di Dio, incarnata in Gesù morto per l'umanità, l'unico atteggiamento possibile è quello del penitente che si batte il petto e piange sui propri peccati. Questa intenzione era esplicitata nei vecchi messali con le espressioni: “Signore pieta! Cristo pietà! Signore pietà!”. La nuova versione propone l'originale greco, dunque sembra strizzare l'occhio ai più rigorosi tradizionalisti, eppure vista la ritrosia di molti pastori ad affrontare temi sgraditi alla mentalità moderna come il peccato e il senso di colpa, l'uso di una lingua sconosciuta ai più fa sorgere il sospetto che si voglia alleggerire se non addirittura occultare il senso delle parole “Kyrie eleison! Christe eleison! Kyrie eleison!”, riducendole a poco più di una formula rituale.
Lo stesso San Paolo d'altronde aveva messo in guardia sui limiti delle parole, perché “la lettera uccide, lo spirito dà vita” (2Corinzi 3, 4-12). Non è possibile infatti trasmettere con le sole parole il senso profondo di qualcosa. Serve vederlo incarnato a lungo nella vita di un testimone, serve ruminarlo nella meditazione della Parola sacra, serve viverlo e sperimentarlo nella propria carne e all'interno di un gruppo. Ecco perché nelle prime comunità cristiane l'avvicinamento ai misteri della fede era preso molto sul serio, come un vero percorso iniziatico. D'altronde i concetti fondamentali del messaggio cristiano, dalla trinità alla transustanziazione, non erano segreti da poco, inferiori a quelli dei culti misterici che andavano per la maggiore sulle sponde del Mediterraneo, come ha ricordato Umberto Eco nel romanzo Il pendolo di Foucault, tanto che c'è voluto del tempo per opacizzare con l'abitudine il loro dirompente fascino iniziale. In anni recenti questa iniziazione cristiana è stata riproposta in modo nuovo, attraente e convincente da Marco Guzzi, un poeta e filosofo che ha avuto un percorso per molti versi simile al mio, ma con cui significativamente sono entrato in contatto solo poche settimane fa. Alcune suggestioni di questo articolo derivano dal suo pensiero.
Il concetto su cui vorrei però soffermarmi, osservandone la trasmissione e il tradimento dal lontano Oriente taoista al mondo cristiano europeo, è quello della non-azione, o “wu wei”, per dirlo nella prima lingua in cui ci è stato trasmesso. “Senza azione” è la traduzione letterale dal cinese, e in questa accezione di rinuncia, di attesa speranzosa, il concetto ha attraversato i secoli e il continente eurasiatico fino ad oggi, fino a una parte profonda di me. Anche in questo caso una lunga tradizione teologica e pastorale si è sedimentata sul pensiero nudo, che nella tradizione cristiana sembra avere fondamento nell'invito di Gesù a tornare come bambini (Matteo 18, 1-5) e ad affidarsi a Dio, che veste i fiori dei campi e nutre gli uccelli del cielo (Matteo 6, 25-33). Apparentemente si tratta di un chiaro richiamo alla semplicità e ad evitare preoccupazioni e sforzi eccessivi, ma per comprendere davvero questo concetto, recuperando lo smalto originario sotto le incrostazioni dei secoli, serve un po' di impegno da parte nostra.
L'affannarsi, l'agitarsi per ottenere qualcosa nella vita, in effetti può interferire con un disegno divino, con l'azione sottile della grazia, con un “piano” che segue regole e logiche a noi sconosciute e spesso incomprensibili. In questo senso si comprende l'insistenza di tanta pastorale cattolica sullo “spirito di fanciullezza”, inteso come abbandono fiducioso alla provvidenza divina. Tuttavia, bisogna riconoscere che solo in rarissimi casi si manifesta un disegno preciso e riconoscibile di Dio nella vita delle persone. Gli esempi a noi più noti sono quelli di alcuni santi, a cui con segni, apparizioni o locuzioni interiori è stata indicata esplicitamente la volontà del Cielo o la loro particolare vocazione. Pertanto, come principio generale, ne consegue che non ci si possa limitare ad attendere degli interventi soprannaturali, se si vuole fare qualche progresso nella vita e sulla via dello spirito.
Ecco dunque che dobbiamo guardare più a fondo e più ampiamente per comprendere come stanno realmente le cose, e per farlo può essere utile ritornare momentaneamente alle suggestioni taoiste. Abbandoniamo quindi il dito della traduzione letterale e puntiamo direttamente alla luna che il dito indicava. “Non-azione” infatti non significa non-agire, ma seguire il Tao, la Via dell'Universo, lo stile di Dio che non si fa notare e sembra indifferente alle nostre passioni e alle nostre categorie, per cui “fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Matteo 5, 45), ma così facendo “le diecimila creature insieme sorgono” (Tao te ching, 16). Approfondendo il mistero dell'essere, il mistico intuisce che “l'officina di Dio è il nulla” (Rumi, Masnavi), eppure “la rete del Cielo tutto avvolge, / ha maglie larghe ma nulla ne sfugge” (Tao te ching, 73). La saggezza secondo il taoismo consiste nell'accettare che il mondo sia come è, con la sua parte di luce e di tenebre, di bene e di male, così come appare alla nostra mente che conosce tramite successive suddivisioni, senza opporsi al flusso delle cose, anzi diventando tutt'uno con esso. Come l'acqua, il saggio taoista si adatta fluidamente alle varie situazioni, non si oppone se non è necessario, non compie sforzo inutile, accetta la volontà dell'universo, la volontà di Dio, e in questa schiavitù portata con leggerezza trova la sua libertà e la sua forza.
Questo concetto paradossale è stato espresso più volte anche nella cultura cristiana. La croce, se accettata, subito dopo essere stata abbracciata diventa più leggera, oltre che strumento di salvezza per sé e per altri. Facendo propria pienamente la volontà di Dio, annullando i propri desideri egoistici e le proprie ambizioni, il santo ottiene che Dio compia la sua volontà, miracoli compresi, e si realizza veramente come persona. Il Dio dei cristiani, conosciuto tramite Gesù, è un Dio personale, che ama ed è amore. Per chi si uniforma a questo amore, come ha sintetizzato Sant'Agostino, c'è un solo precetto: “ama e fa' ciò che vuoi”. Seguendo Cristo, chi perde la propria vita la salva, chi impara a morire a sé in vita non muore più, e chi si unisce a lui, facendosi piccolo, diventa grande, anzi divino, per cui con San Paolo può dire: “quando sono debole, è allora che sono forte.” (2Corinzi 12, 10).
Si comprende quindi che la non azione taoista e l'abbandono cristiano non hanno a che fare in senso stretto con l'arrendevolezza e la passività, bensì con l'uniformarsi all'azione divina, caratterizzata da vigore espresso con mitezza e potenza trasformante. In questa luce, possiamo ben tradurre anche l'insegnamento di Gesù citato prima e messo da Matteo come prolungamento del discorso delle “beatitudini”. L'invito a osservare i gigli del campo, che pur non tessendo hanno un vestito più splendido di quelli di Salomone, o gli uccelli del cielo, che non seminano né mietono, eppure trovano di che nutrirsi, non è un appello all'inattività o a confidare in un intervento soprannaturale per il soddisfacimento delle proprie esigenze. Gesù invita a non preoccuparsi delle cose mondane ma a cercare prima di tutto il “regno di Dio”, che è appunto il dominio di Dio su un cuore reso mite e umile, un dominio che comporta un giogo soave e un carico leggero, una signoria che garantisce una pace profonda alle anime (Matteo 11, 25-30).
Accenno en passant al fatto che anche il concetto del “regno” è stato fonte di grandi fraintendimenti, errori di traduzione e tradimenti, a cominciare da quello che contrapporrebbe un “Gesù storico”, rivoluzionario fallito, al “Cristo della fede”, costruito da San Paolo. A parte il fatto che il Gesù “storico” aveva già chiarito che il suo regno non era di questo mondo, né di tipo messianico né di tipo rivoluzionario/apocalittico, tutta la questione ruota sulla tensione, poco chiara ai primi discepoli di Gesù come a dotti teologi contemporanei, tra il “già” e il “non ancora”, la città degli uomini e la città di Dio di cui ha scritto Sant'Agostino, in cui i due termini non costituiscono una vera opposizione, perché tutto è tenuto insieme (“et-et”) da una sintesi superiore, nel tempo ultimo – inaugurato dall'incarnazione – tra storia ed eternità.
Per concludere, resta quindi da dire qualcosa su ciò che intendeva davvero Gesù, secondo me, col suo invito a ritornare bambini per entrare nel regno dei cieli (Matteo 18, 1-10). Lo “spirito di fanciullezza” è stato evocato da innumerevoli prediche domenicali, oltre che da documenti ufficiali come quello del Sant'Uffizio sulle forme della preghiera, principalmente per mettere in guardia contro pericolose pratiche spirituali (o spiritiche) “fai da te”, e invitare a diffidare di “tecniche” i cui effetti possono essere confusi con quelli della grazia e far montare in superbia chi le pratica. Si nota in ciò la tradizionale e comprensibile prudenza della Chiesa, madre e maestra, che pone limiti a tutti per evitare ai più fragili e sprovveduti di farsi del male. Tuttavia, a mio parere, questa accezione della “fanciullezza” intesa come condizione di estrema innocenza, deficitaria e bisognosa di protezione, non coglie pienamente il bersaglio, né rende giustizia al pensiero del Maestro.
Certamente Gesù invita a farsi piccoli e semplici come bambini in contrapposizione alla superbia e alle illusioni dei discepoli, che si chiedevano chi sarebbe stato il più grande tra loro in un regno che immaginavano imminente e molto concreto, con tanto di nobili compagni della prima ora e funzionari d'alto rango (Marco 9, 30-37). Proprio in riferimento al vero “regno”, però, le caratteristiche dei fanciulli che più mi sembrano calzanti e fedeli allo spirito evangelico sono la fiducia, l'apertura, l'impegno e il coraggio. In generale, i bambini e i ragazzi, almeno fino a una certa età, si impegnano pienamente nei giochi, che prendono estremamente sul serio; non hanno paura di sperimentare, né di affrontare quando è necessario le proprie ombre e i mostri veri o immaginari; sono aperti alle infinite possibilità della vita e si buttano nelle esperienze senza bisogno di capirle o catalogarle. Ma soprattutto sono capaci di amare, di un amore puro e disinteressato, come di odiare con un'intensità tanto forte quanto breve: vogliono tutto, come i santi, e se lasciati liberi di esprimersi inseguono la migliore versione di sé stessi.
Una cosa che i bambini imparano presto, infatti, è che non possono accontentarsi dei vestiti e del cibo che i genitori regalano loro, perché non può bastare il minimo indispensabile più o meno garantito, e che per tutto il resto, per ciò che conta davvero, devono lottare. La prima sfida, enfatizzata dalla scuola, è imparare a stare al mondo. I bambini appena nati si percepiscono separati dal resto e crescono nella conoscenza continuando a dividere e sezionare. Tuttavia, per imparare davvero come funziona l'universo, seguirne il principio ed entrare nel “regno”, dovranno tornare in un certo senso sui propri passi, dalla via della separazione alla via dell'unione, verso l'Uno da cui tutto è partito e a cui tutto ritorna, dove non ci sono fraintendimenti né errori di traduzione, perché tutto è eternamente presente, oltre il velo del nulla e del silenzio.
“E in questo silenzio che fa paura,
che parla tacendo, che ci consuma...
E in questa ricchezza vestita nuda,
vengo a fidarmi di te”
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