Gli immigrati, il documentarista e il cardinale

Il reporter Gabriele Del Grande e il vescovo di Milano Giovanni Colombo (foto dalla rete)


Scopo di questo blog è elaborare gli strumenti concettuali necessari a progettare e realizzare un futuro diverso rispetto a quello globalista proposto dalle élite, o alle versioni alternative avanzate da varie sottoculture di resistenza, che però generalmente hanno in comune con le élite una visione unidimensionale dell'uomo, non considerando la sua dimensione spirituale o appiattendola ai fini del mercato. Per questo motivo ho deciso di non occuparmi della stretta attualità, che peraltro è diventata difficilmente interpretabile a causa dell'apparente irrazionalità della classe dominante, la quale in ogni caso fa leva sull'emotività dell'opinione pubblica più che sulla ragione utilizzando tutti gli strumenti della retorica classica e dei moderni mezzi di comunicazione. Tuttavia, sono consapevole che, come diceva un manager con cui ho lavorato, “non si può progettare il futuro se il presente non è chiaro”, e non ci può essere una vera intelligenza del presente senza una prospettiva storica di lungo periodo. Vorrei quindi condividere alcune riflessioni e suggestioni suggeritemi da due recenti letture, che riguardano il presente e il nostro recente passato e sono accomunate dal tema delle migrazioni, sicuramente fondamentale anche nel futuro.

La prima lettura è un durissimo articolo del giornalista Maurizio Blondet su un mio coetaneo, Gabriele Del Grande, che mentre scrivo è in una prigione turca dopo essere stato fermato alla frontiera con la Siria, in una zona proibita dove si stava documentando per un prossimo libro (il cui titolo, Un partigiano mi disse, rivela un omaggio al conterraneo Tiziano Terzani, a cui sembra ispirarsi per vari motivi). Gabriele ha seguito in diverse occasioni la guerra in Siria, embedded tra i “ribelli” anti Assad di cui certamente condivide le aspirazioni di fondo e per cui non nasconde la propria simpatia. Il titolo del suo blog, Fortress Europe, si riferisce invece al tema centrale della sua attività, ovvero le storie dei migranti che cercano di raggiungere l'Europa e spesso trovano la morte nel Mediterraneo, raccontate anche in libri e articoli su quotidiani. Di Gabriele però confesso che conoscevo un solo lavoro, ovvero il documentario Io sto con la sposa del 2014, su un finto corteo nuziale che in quattro giorni ha attraversato l'Europa per portare alcuni profughi sbarcati a Lampedusa fino in Svezia. Facendo presa sulla simpatia suscitata dalla sposa, l'intento del viaggio e del film era aggirare le leggi dei paesi e le diffidenze dell'opinione pubblica per sostenere il diritto universale alla libera circolazione.

L'articolo di Blondet invece non ha alcuna traccia di simpatia umana, anzi sembra che l'autore abbia fatto violenza alla pietà naturalmente suscitata dalla storia di Gabriele, attualmente in sciopero della fame, per delineare un quadro più ampio alla luce di alcuni elementi razionali. Gabriele viene così paragonato alle due Vanesse rapite “dagli amici jihadisti”, al ricercatore Giulio Regeni, ucciso al Cairo dove stava facendo delle ricerche per conto dell'università di Cambridge (ma forse a vantaggio dei servizi inglesi), a Valeria Solesin, morta al Bataclan di Parigi in un attacco terroristico e a cui sono stati tributati funerali di Stato. Questi giovani italiani, secondo Blondet, sono trattati diversamente dalla nostra classe dirigente perché ne incarnano i “valori” e se ne fanno in modi diversi ambasciatori all'estero. Sono giovani che hanno studiato in università straniere, abitano in grandi città in varie parti del mondo, hanno una mentalità laica e internazionalista. Rappresentano insomma il tipo nuovo di umanità sradicata, plasmabile e facilmente manovrabile tanto caro alle élite globaliste.

Al di là di alcune forzature polemiche di Blondet, condivido la sua intuizione di fondo. Ciò che accomuna molti giovani “alternativi” e “ribelli” alle élite che pubblicamente criticano è ad esempio una ingenua fiducia “liberistica” nel mercato. La convinzione che il privato sia sempre e comunque preferibile al pubblico, l'idea che all'estero siano tutti seri o almeno più seri di noi e che spesso siano mossi da autentica generosità o dagli stessi istinti altruistici che guidano le loro scelte politiche e il loro impegno sociale. Del Grande, ad esempio, commentando nel 2014 le aperture dell'Unione ai paesi dell'est riassumeva così le nuove illuminate conclusioni della politica europea: “È impossibile controllare lo spostamento di milioni di persone. La migliore soluzione è la liberalizzazione, per cui li facciamo entrare e uscire e lasciamo che il mercato del lavoro più o meno regoli le entrate e le uscite”. Peccato che il mercato non è una forza benevola e paternalistica capace di regolare per il meglio i flussi migratori, ma al contrario dimostra di utilizzarli per ridurre gli stipendi e le garanzie a tutti i lavorati, col beneplacito del Fondo Monetario e dei governi, tra cui quello italiano come evidenziato in un recente articolo da Francesco Borgonovo. 

L'atteggiamento di Blondet, per quanto difficilmente condivisibile e applicabile in ogni circostanza, corrisponde in realtà alla tradizionale prudenza e saggezza della Chiesa cattolica (e della buona politica), che oltre ad accogliere le persone in difficoltà e a provvedere alle loro necessità immediate, corporali e spirituali, considerava opera di carità altrettanto importante cercare di sviluppare considerazioni complessive e piani strategici che permettessero di offrire reali soluzioni ai problemi. Questo discernimento tradizionale è stato oggi praticamente sostituito dall'ermeneutica della misericordia, che concentrandosi sui casi singoli e l'emozione suscitata dalla loro narrazione mediatica ha contribuito ad aggravare diversi problemi. Sulla “pericolosità politica e sociale” della bontà che diventa buonismo ha scritto Blondet in un altro fondamentale articolo a cui rimando. Vorrei qui invece riproporre alcune considerazioni del vescovo di Milano Giovanni Colombo sull'immigrazione, pubblicate nel volume Per la liberazione dell'uomo edito da Rusconi nel 1972. Gli immigrati che aveva in mente erano i meridionali giunti in massa nelle città del nord e innanzitutto a Milano nel decennio precedente, ma leggendo le sue riflessioni è impossibile non pensare alla situazione odierna per molti aspetti identica.

Il cardinale dimostra innanzitutto una chiara comprensione dei meccanismi psicologici alla base delle migrazioni, del ruolo dei mass media e dei rischi sociali connessi:
Le migrazioni sono per lo più un rifiuto dei giovani della vita rurale, almeno nelle forme arcaiche e statiche in cui l'hanno sperimentata. [] I mezzi di comunicazione, particolarmente la radio e la televisione, alimentano le loro aspirazioni e le loro illusioni, presentando il miraggio di una vita più facile, più ricca, più libera, più divertente. In siffatto stato d'animo basta l'invito di un compaesano o il vago annuncio di un'industria che cerca mano d'opera, perché decidano di rompere con le odiate e superate strutture, e di partire.

Al capolinea d'arrivo trovano un mondo ben diverso da quello sognato, irto di difficoltà insospettate e di umiliazioni terribili, a cui forse nessuno li aveva preparati. Il brusco passaggio da una società semplice, tradizionale, paternalistica a una società strutturalmente complessa, li disorienta e li stordisce. Spesso si sentono sorpresi da un senso di insicurezza sui nuovi valori a cui aderire, sulle nuove decisioni da prendere, e oppressi dal peso della solitudine. []

Per tutti questi motivi non è raro che gli immigrati, specialmente i giovani, cadano in un profondo stato di frustrazione, che li espone alla peggiore di tutte le insidie: la tentazione di evadere dalla loro triste condizione prendendo i sentieri della corruzione, della vita dissipata ed emarginata, della droga, della criminalità.

Anche a prescindere da questi sbocchi pessimi ed estremi, l'immigrato che non trova lavoro o non resiste al posto, non torna indietro: sarebbe per lui una dichiarazione di fallimento in faccia ai parenti e ai conoscenti. E così resta. Resta con il suo carico di amarezze, di risentimenti, di ribellioni. Resta con l'animo invelenito da una aggressività pericolosa: la cosiddetta conflittualità urbana.

Colombo sa bene che gli immigrati sono attratti in quanto “forza per il lavoro”, mentre il loro costo sociale ricade sulla collettività, che deve farsi carico dell'istruzione dei minori, della costruzione di nuove case e del mantenimento dei familiari inattivi una volta avvenuta la ricongiunzione. La carità cristiana secondo il vescovo di Milano deve spingere chi ha ruoli di potere a pensare rapidamente a delle soluzioni strategiche e anche a ripensare le leggi, perché “i poveri hanno fretta, e i sofferenti non possono ragionare a lungo”.
Forse c'è da domandarsi se la legge dell'emigrazione tiene sufficiente calcolo di ogni aspetto del fatto migratorio. Concedere al cittadino di trasferirsi in qualsiasi posto della nazione, senza assicurargli insieme le strutture indispensabili, è per metà una libertà, ma per l'altra metà degli immigrati è sentito come un inganno. A questo proposito l'insegnamento del Concilio è molto equilibrato: «La giustizia e l'equità richiedono che la mobilità, assolutamente necessaria in una economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita dei singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria» (Gaudium et Spes, 66). Non si tratta di impedire ulteriori insediamenti, ma di seguire l'immigrazione con giusti controlli e di darle un opportuno arginamento, perché sia fonte di benessere per la comunità intera e particolarmente per gli stessi immigrati e non causa di delusioni, di ribellioni, di conflittualità sociali. E prima ancora la saggezza previdente consiglia di fare sforzi per creare posti di lavoro sempre più numerosi nella stessa terra di origine. 
(Giovanni Card. Colombo, Per la liberazione dell'uomo, Rusconi 1972, pp. 66-73)


La sfida che abbiamo di fronte, che ogni generazione ha di fronte, è quella di provare a dominare la complessità del mondo o almeno a indirizzarla e gestirla in parte. Alzare bandiera bianca in partenza per concentrarsi su dei dettagli o sulle vicende di singole persone, lasciando fare alla nuova divinità del mercato o agli organismi sovranazionali, nella speranza che siano benevoli perché mossi da buone intenzioni o da un ipotetico interesse comune, o che magicamente tutto andrà a posto da solo, non è sintomo di intelligenza e apertura mentale ma al contrario di ottusità e sciatteria intellettuale. Al contempo non si può nemmeno rimanere paralizzati da un disarmante cinismo, da una pregiudiziale diffidenza e chiusura nei confronti di tutto ciò che è tanto grande da non poter essere completamente controllabile e conoscibile. La sfida che abbiamo di fronte è quella di conservare sempre e comunque la nostra umanità, ma senza farci dominare dalle emozioni né tantomeno da una pretesa bontà universale che si traduce regolarmente in un asservente buonismo. Dobbiamo insomma essere “prudenti come serpenti e candidi come colombe” (Mt 10, 16), cercando di coniugare “verità e amore”, secondo il motto del cardinal Colombo. Una cosa e l'altra, et et, nella migliore tradizione cattolica, anche se non ci sono più né una Chiesa autorevole né uno Stato etico a indirizzarci. È possibile, lo è stato e può esserlo ancora, in modi del tutto nuovi che sta a noi inventare.





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