Appunti per un'economia dello sviluppo umano integrale
C. D. Friedrich, Mattina sui Monti dei Giganti (particolare) |
«Io sono venuto perché abbiano la vita
e l’abbiano in abbondanza»
e l’abbiano in abbondanza»
(Gv 10,10)
Non esistono formule sempre valide per accrescere e conservare la ricchezza, anche se svegliarsi presto, studiare e lavorare sodo certamente aiuta, ma ci sono pratiche e teorie consolidate che hanno il sicuro effetto di mantenere e aumentare la povertà. Ecco perché dovremmo interessarci all'economia anche se non siamo specialisti e cercare di comprendere questa disciplina, che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita, nell'ottica più globale possibile.
Pur avendo una formazione storica, con qualche esperienza e competenza nel mondo della comunicazione e numerosi interessi secondari, mi sembra che il principale oggetto di studio della mia vita, senza dubbio il più appassionante, sia stata l'economia.
All'università ho incontrato questa disciplina fin dalle primissime lezioni di storia contemporanea – e geopolitica – col professor Giorgio Rumi. In seguito ho appreso le basi dell'economia aziendale con la professoressa bocconiana Paola Dubini, e ho utilizzato l'analisi economica in chiave antropologica col professor Giulio Sapelli per comprendere le risposte dei singoli e dei gruppi sociali agli stimoli ambientali. Poi ho continuato da solo, ampliando e mettendo più volte in discussione le conoscenze acquisite, anche grazie ad alcuni economisti eterodossi incontrati sui social e di persona.
Parallelamente, fin dall'adolescenza – attingendo alla biblioteca di uno zio prete – mi sono interessato all'economia della salvezza, ovvero alle principali questioni della teologia della storia, al mistero della pedagogia divina, al valore dei sacramenti e della redenzione operata da Cristo, fino ad approfondire in anni recenti la dottrina sociale delle Chiesa, in particolare nella formulazione data da Pio XI come risposta alla crisi del 1929.
Se dovessi sintetizzare ciò che ho capito, direi innanzitutto che la vita su questa terra è una lotta, per cui non dobbiamo temere il conflitto nelle sue varie forme. Vanno bene in linea di principio il libero mercato, la concorrenza tra i lavoratori dipendenti e tra gli imprenditori, ma anche la competizione fra i più ricchi e i meno abbienti. Anzi, il conflitto sociale per la distribuzione delle ricchezze, se ordinato e rispettoso, è alla base di un'economia sana e della stessa democrazia. Guai alle società che anestetizzano questo confronto, con misure paternalistiche e clientelari o al contrario mettendo la disoccupazione strutturale e la svalutazione del lavoro nei trattati fondamentali (in nome della stabilità dei prezzi e del valore del capitale) e attirando altri disoccupati dall'esterno. Guai anche alle società in cui il conflitto è esasperato o troppo sbilanciato, ad esempio da parte degli operai in regime di piena occupazione con richieste crescenti fini a sé stesse agli industriali, o come più spesso avviene da parte dei proprietari dei mezzi di produzione, scaricando sui dipendenti le inefficienze gestionali o comprimendo i salari e aumentando i carichi di lavoro come leva competitiva invece di investire nell'innovazione di processi e prodotti.
Allo stesso modo, non bisogna temere il combattimento spirituale, che è innanzitutto una lotta contro le nostre passioni sregolate, le nostre idee preconcette e le tentazioni di ridurre la realtà a misura di esse, ma anche e sempre più significativamente una “lotta” con Dio, nella preghiera assidua e insistente che è il solo mezzo per attirare la sua grazia, da cui tutto in ultima analisi dipende. Infatti, Dio che è amore, pace, e dà costantemente senza nulla chiedere in cambio, agisce però secondo vie misteriose che non sono quelle umane (né potrebbero esserlo), per cui in maniera per noi imperscrutabile concede molte grazie a qualcuno e poche ad altri. Possiamo dire che chi ci appare più buono e virtuoso è in realtà più amato da Dio, ma senza il suo aiuto non saprebbe neppure pregare. L'economia divina insomma non segue le nostre leggi o la nostra idea di giustizia, ma lottando con Dio come il profeta Elia possiamo in qualche modo, a volte, “piegare” la sua grazia verso ciò che desideriamo con la preghiera o altre forme di riparazione che soddisfino la sua giustizia. Va anche detto che i “santi”, coloro i quali sono più ascoltati da Dio, hanno già riversato in Lui quasi totalmente la loro volontà, per cui raramente chiedono cose materiali o miracoli per sé stessi, piuttosto lo implorano di avere misericordia di loro creature peccatrici, in quanto il vero significato della preghiera e il suo fine ultimo consistono nel riuscire a stare di fronte a Dio amandolo per ciò che è, non per come ci fa sentire o quello che può darci.
Tra questi due estremi (la lotta con gli altri individui e la lotta con Dio), contemporaneamente, dobbiamo tendere a un giusto e proficuo ordinamento della società, superiore al conflitto degli interessi e possibile solo con la grazia di Dio, considerato come centro della vita di ciascuno e Padre di tutti. Benché difficili da raggiungere e mantenere, la concordia e la cooperazione sociale, secondo il principio di sussidiarietà (il più grande aiuta il più piccolo in ciò che non può fare senza soverchiarlo in ciò in cui riesce da solo), sono obiettivi per nulla utopici ma anzi inscritti nello stesso ordine naturale. L'osservazione della vita sulla terra, infatti, ci suggerisce che le migliori strategie di sopravvivenza, attacco e difesa sono quelle basate sulla cooperazione. Il mito pseudo-scientifico secondo cui il migliore vivrebbe nell'abbondanza a scapito dei meno dotati è nato nell'800 per giustificare il sistema di dominio mondiale degli inglesi, ma la vera selezione naturale premia innanzitutto coloro che, oltre a tutelare sé stessi, sanno aiutarsi e collaborare a un bene comune.
Per diffondere e applicare questi concetti, ovviamente si dovrebbe agire sia a livello individuale sia nella società con metodi e stili adeguati.
A livello personale, per contrastare la formidabile tendenza all'individualismo sostenuta dai media, non più in chiave edonistica e consumistica come negli anni scorsi ma apertamente nichilistica (in base alla narrazione ufficiale, sembrerebbe che la principale preoccupazione degli europei sia diventata ridurre il proprio impatto sul mondo fino a scomparire, magari in un compost organico utilizzabile a fini agricoli), si dovrebbero proporre elementi di buon senso e realismo con molta umiltà e rigore logico, senza inutili abbellimenti stilistici o sfoggio di cultura, nel rispetto delle capacità e dei tempi di elaborazione e maturazione di ciascuno.
A livello della società, si dovrebbe enfatizzare l'importanza degli investimenti come generatori di risparmio e moltiplicatori di ricchezza, secondo la lezione di Keynes, spingendosi però fino a ribaltare a livello del senso comune l'attuale concezione prevalente dell'economia come sistema chiuso e contabilizzabile basato sul debito in un sistema aperto di relazioni in buona parte immateriali fondato sul credito, a cui non sempre e non necessariamente corrisponde un debito, ovvero sul valore intrinseco e potenziale dei fattori economici. Ad esempio, si pensi all'importanza del “credito immateriale”, della fiducia riposta nelle istituzioni, che determina in buona parte il successo di un'azienda o di una nazione, ma è anche alla base delle discutibili operazioni di auto promozione e “personal branding” che costituiscono la vita sui social media per milioni di persone.
È stato il credito nel futuro e nelle nuove generazioni a produrre in gran parte lo sviluppo degli anni Sessanta. I “baby boomers” sono stati in realtà concausa del boom economico, perché gli investimenti materiali e immateriali dei genitori in funzione del loro presente e futuro benessere hanno spinto l'economia per decenni. L'Unione Sovietica al contrario è crollata non tanto per la competizione militare con gli Stati Uniti, quanto perché le persone avevano perso fiducia nel sistema economico, ovvero non si fidavano più le une delle altre negli scambi quotidiani, per cui i mercati neri o grigi, tra cui quello della corruzione negli atti pubblici, avevano superato per importanza quello ufficiale. Gli Stati Uniti, invece, anche grazie alla loro industria culturale e pubblicitaria, negli stessi anni godevano di un notevole credito di immagine, ovvero di un “soft power” minato solo dal loro interventismo militare.
La grande crisi finanziaria e creditizia del 2008 è stata causata da disfunzioni intrinseche al sistema economico liberale, tornato slegato da efficaci vincoli e controlli statali come prima del 1929, ma dopo essere stato potenziato da nuovi strumenti speculativi e una certa liberalizzazione morale e popolarizzazione di vizi precedentemente condannati come l'egoismo e l'avidità (“greed is good”). Il disinteresse e la sfiducia verso gli altri, ciò che è pubblico e il futuro hanno acuito la gravità della crisi e sono stati a loro volta intensificati dai suoi effetti, in un circolo vizioso che nessun governo o istituzione finora ha saputo fermare.
Per rilanciare l'economia, ovvero per tornare a fidarci di più gli uni degli altri, benché con la giusta prudenza, motivata dalla consapevolezza dei limiti umani e della nostra caducità, sarebbe quindi fondamentale recuperare una speranza comune, ovvero la convinzione che la storia non è sottoposta ai capricci della sorte bensì rimane saldamente nelle mani di Dio, che agisce anche attraverso di noi e la nostra libertà di scegliere il bene o il male. Solo accettando Dio come centro e fine dell'esistenza individuale e collettiva, infatti, il nostro agire nel mondo si colloca al giusto posto e trova il suo vero significato, perché comprendiamo che il male fatto, compresi i nostri sbagli, è passeggero, mentre ciò che è buono e viene da Dio rimane e troverà il suo compimento e la sua trasfigurazione nell'eternità. Nell'economia della salvezza, però, la fede e la speranza sono doni sovrannaturali, che soltanto Dio può concedere. A noi, che per sua grazia li abbiamo ricevuti e conservati, spetta il compito di pregare per i nostri fratelli che non credono, confermare i dubbiosi e ispirare gli uomini di buona volontà, con poche idee chiare e coraggiose e una vita il più possibile coerente.
Per rilanciare l'economia, ovvero per tornare a fidarci di più gli uni degli altri, benché con la giusta prudenza, motivata dalla consapevolezza dei limiti umani e della nostra caducità, sarebbe quindi fondamentale recuperare una speranza comune, ovvero la convinzione che la storia non è sottoposta ai capricci della sorte bensì rimane saldamente nelle mani di Dio, che agisce anche attraverso di noi e la nostra libertà di scegliere il bene o il male. Solo accettando Dio come centro e fine dell'esistenza individuale e collettiva, infatti, il nostro agire nel mondo si colloca al giusto posto e trova il suo vero significato, perché comprendiamo che il male fatto, compresi i nostri sbagli, è passeggero, mentre ciò che è buono e viene da Dio rimane e troverà il suo compimento e la sua trasfigurazione nell'eternità. Nell'economia della salvezza, però, la fede e la speranza sono doni sovrannaturali, che soltanto Dio può concedere. A noi, che per sua grazia li abbiamo ricevuti e conservati, spetta il compito di pregare per i nostri fratelli che non credono, confermare i dubbiosi e ispirare gli uomini di buona volontà, con poche idee chiare e coraggiose e una vita il più possibile coerente.
Di fatto, una nuova economia capace di promuovere l'umanità in tutti i suoi aspetti può essere realizzata solo da persone che aprano il proprio cuore al dominio di Dio, e cerchino il suo regno, la sua misericordia e la sua giustizia per il tramite del Figlio. Nessun'altra via è mai riuscita a sviluppare integralmente l’uomo, che è unità di materia, anima e spirito, e può trovare il suo compimento solo in Dio, con una divinizzazione impossibile salendo dal basso ma resa possibile da Dio che si è fatto uomo per indicarci la strada nell’unione con Lui.
A questo proposito, dobbiamo combattere particolarmente contro due tendenze idolatriche della contemporaneità, ovvero il culto dello Stato nello statalismo e quello della Natura nell'ecologismo. Non sarà il ritorno apparentemente in atto a una maggiore sovranità degli stati in sé a salvarci, perché lo Stato è solo un’organizzazione che può assumere varie forme ed essere funzionale a molteplici interessi: quelli di una comunità superiore ai particolarismi se è nazionale, ma anche quelli del centro rispetto alla periferia se è sovranazionale (come l’Impero Austro-Ungarico o l’Unione Europea); quelli popolari e democratici nei momenti in cui la politica è forte, ma anche quelli dei grandi capitali che cercano sempre di imporre agli stati la propria agenda e di utilizzarli per espandere all’estero i propri interessi (è così che sono scoppiate le due guerre mondiali e l’attuale terza guerra mondiale “a pezzi”). Allo stesso modo, il diffondersi a livello planetario di una rinnovata sensibilità ecologica è certamente un fatto positivo, ma non bisogna aspettarsi un grande sviluppo economico dalla riconversione verde guidata da fondi d'investimento e banche centrali, né tantomeno una piena realizzazione dell’uomo da una nuova mitica età dell’oro post-cristiana, in cui la tecnologia più avanzata si fonda armoniosamente con la Natura (come se ciò che di buono abbiamo ottenuto finora dal mondo, e la sua stessa forma, non siano anche un prodotto della cultura e del lavoro), perché come si è detto il soddisfacimento dei bisogni materiali e di qualche bisogno immateriale o spirituale di basso livello non placherà mai la nostra sete di assoluto, che può essere soddisfatta solo nell’unione con Dio resa possibile dall’incarnazione, passione, morte e risurrezione di Cristo.
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