Migranti tutti, fratelli in Cristo

 

Particolare di una via crucis nella chiesa di Watamu, Kenya (archivio personale)


La forma terminale del liberalismo di cui quasi tutti stiamo finalmente scoprendo l'estrema durezza, dopo il brusco peggioramento delle condizioni economiche a causa dalla crisi sanitaria legata alla pandemia di covid-19, come il virus in realtà ha già fatto il giro del globo terracqueo, dimostrando una volta di più l'unità del genere umano. È iniziata qui, nel mondo avanzato ma economicamente già in crisi di quarant'anni fa, con le liberalizzazioni e le privatizzazioni, si è sviluppata nelle "zone franche" per la produzione e l'esportazione del terzo mondo e quindi come un'onda globale, uno tsunami, è tornata nel primo mondo con la forza dirompente delle migrazioni mediatiche (amplificate e in parte generate dallo sviluppo di Internet, della telefonia mobile e delle trasmissioni televisive satellitari), che sembrano coi giusti aiuti poter trasformare tutti i paesi in "zone speciali" e tutti i loro abitanti in "migranti". Così scriveva vent'anni fa Naomi Klein in No Logo (Baldini & Castoldi 2001, p. 206):

«Il "nuovo affare" concluso con i lavoratori consiste in realtà nella totale mancanza di accordi: ex produttori, oggi esperti di marketing, sono così intensamente impegnati a sottrarsi a qualunque tipo di coinvolgimento, che stanno cercando di creare una forza lavoro di donne senza prole e un sistema nomadico di fabbriche che utilizzano lavoratori erranti.»

Siamo insomma tornati all'epoca di Dickens, alla legge dei più forti per nascita o crudeltà e alle loro selezioni tutt'altro che naturali, con la differenza che ora i sobborghi di Londra sono nel mondo intero. Abbiamo d'altronde dimenticato, oltre alla saggezza dei secoli precedenti, le lezioni dell'800 come quella del 1929, e quindi accantonato le soluzioni degli anni seguenti ispirate al buon senso, ovvero alle pratiche cooperative che si osservano tra gli animali e nelle società meno "avanzate", e agli insegnamenti cristiani, cioè alla dottrina sociale della chiesa che sta in nuce nel "Padre Nostro".

I più smemorati sono stati gli elettori e gli intellettuali medi dei partiti "di sinistra", quelli per intenderci che si sono accontentati dei riassunti di Marx e sono lontanissimi dalla serietà intellettuale di un Costanzo Preve, di un David Graeber o della succitata Klein. Non solo hanno avvallato la distruzione dei benefici e delle difese dei più deboli realizzata in prima persona dai loro partiti, ma sposando col fervore dei neo-convertiti i progetti liberisti e massonici per una società più aperta, ovvero il globalismo e l’immigrazionismo, in alcuni casi si sono spinti tanto avanti da ribaltare inconsapevolmente le intenzioni delle internazionali comuniste, che pur tra significative diversità di vedute avevano lo scopo dichiarato di aiutare i proletari dei vari paesi a casa loro, unendoli solo idealmente nella lotta comune o per specifici obiettivi con ricadute nazionali. Un discorso simile andrebbe fatto per i gesuiti oggi tanto influenti nella chiesa cattolica, che sembrano non aver mai letto o compreso ciò che hanno scritto per le encicliche papali degli anni trenta del Novecento alcuni loro confratelli, come Gustav Gundlach, John La Farge e Oswald von Nell-Breuning. Non stupisce pertanto la comune militanza di questi personaggi nel fronte "progressista", dato che, come ha sentenziato Nicolás Gómez Dávila, «il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile da quando i comunisti hanno iniziato a falsificare Marx e i cattolici Cristo».

L'unica via d'uscita, valida oggi come in ogni epoca, si può trovare non restando nella dimensione orizzontale (nel circolo), o facendo ridicoli girotondi magici tenendosi per mano, ma andando insieme verso l'alto. Dopo aver riconosciuto razionalmente il solo Alto comune e l'unica Via redentiva per arrivarci, come ci hanno insegnato i papi Pio XI e Pio XII, ad esempio nell’enciclica Summi Pontificatus (del 1939, paragrafo 3):

«Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell'unità di una comune origine in Dio: “Un solo Dio e padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti” (Ef 4,6); nell'unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell'unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell'unità di abitazione, la Terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell'unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell'unità dei mezzi, per conseguire tale fine.

E lo stesso apostolo ci mostra l'umanità nell'unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, “in cui tutte le cose sono state create” (Col 1,16); nell'unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l'infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: “Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù” (1Tm 2,5)

Come potrebbero i nuovi poveri senza prole e gli straricchi di sempre condividere una “fratellanza” di tipo massonico solo perché abitano lo stesso pianeta? Come potrebbero convivere riconoscendosi in una generica spiritualità teista i “figli delle tenebre”, che hanno deliberatamente scelto il male, e i “figli della luce”, che tra innumerevoli cadute e difficoltà cercano di seguire la semplice ma impegnativa legge di Dio? Citando ancora le parole di San Paolo, nel capitolo sesto della seconda lettera ai Corinzi, «che armonia ci può essere tra Cristo e il diavolo? Come fa un credente ad essere legato ad uno che non crede? E che accordo ci può essere fra il tempio di Dio e gli idoli?».

La vera unione del genere umano non può dunque essere frutto di un livellamento al ribasso, certamente favorito negli ultimi decenni dai mezzi di comunicazione e propaganda di massa, dallo svilimento dell’istruzione e della ricerca e dalle ricadute sociali del liberalismo ottocentesco potenziato dalle moderne corporation e dalla finanza sregolata, che dagli anni ottanta del Novecento hanno asservito in gran parte anche gli stati nazionali (per qualche decennio principali baluardi dei più deboli), rendendoci infine tutti sempre più “migranti” come le masse di persone che dall’Asia, dall’Africa e dal Sud America cercano di conquistare un pezzettino del residuo benessere dell’Europa e dell’America settentrionale, ovvero individui debolissimi poiché privi dei tradizionali legami sociali e familiari, ulteriormente deteriorati in tutto il mondo dalle recenti misure di distanziamento e isolamento imposte per combattere la pandemia. Solo riconoscendoci fratelli nell’unico Dio che si è manifestato a noi in quanto tale, fino a vincere la morte, e risalendo in Cristo, uomo-Dio, al principio divino della nostra esistenza, potremmo salvare (giustificandola e santificandola in Lui) ciò che resta della nostra umanità, e tentare di ricostruire una civiltà in cui Dio regni nel cuore malato degli uomini, che riuscirebbero quindi ad amarsi sul serio tra loro. Benché altamente improbabile questo non è affatto un sogno irrealizzabile, ma bisogna precisare che si tratterebbe di una realtà caratterizzata da un’irriducibile tensione tra il già e il non ancora, il qui e l’oltre, ovvero di una società plasmata come altre nel passato da cristiani che vivono su questa Terra con la consapevolezza dei limiti propri della condizione umana e contemporaneamente già in Cielo, dove troverà compimento il loro cammino terreno e il nostro destino comune.    





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